Natale Di Cola, Fp Cgil Roma e Lazio: “Più assunzioni e procedure più veloci, o i servizi imploderanno. Paradossale che manchino i vincitori di concorsi da assumere”.
Dopo le denunce su Inps e funzioni centrali, la Fp Cgil di Roma e Lazio torna a lanciare l’allarme occupazione, questa volta per la sanità pubblica. Nel Lazio, dal 2001 al 2016 si è già perso oltre il 10% del personale medico e del comparto sanitario, quasi il doppio della media nazionale. Oggi entrano nella fascia d’età 58-67 oltre 17.500 persone, tutti destinati a uscire nei prossimi 10 anni. 2500 circa sono state le uscite tra il 2016 e il 2018 e – secondo le stime elaborate dalla Fp Cgil di Roma e Lazio prima dell’entrata in vigore dell’opzione quota 100 – altri 7.500 sono destinati alla pensione nel quinquennio 2018-2023. Numeri da rivedere al rialzo, per effetto di quota 100 e per il superamento dei vincoli della legge Fornero, che per qualche anno ha posticipato le uscite.
“Per quanto si sia tornati ad assumere, dopo anni di commissariamento e blocco del turn over – dichiara Natale di Cola, Segretario Generale Fp Cgil di Roma e Lazio – nel prossimo triennio in tanti usciranno dal Sistema sanitario regionale e le assunzioni previste non compenseranno le uscite. Dal 2018 al 2020 pressoché ovunque i nuovi ingressi saranno inferiori alle perdite del triennio, senza contare la lentezza delle procedure concorsuali, che non consentirà di prendere servizio in tempi brevi, mentre i pensionamenti andranno avanti nei prossimi mesi. Sui piani assunzionali siamo indietro: non solo non verrà recuperato quanto perso in 20 anni, ma le assunzioni programmate lasceranno comunque un saldo negativo, e non arriveranno in fretta”.
Qualche esempio: alla Asl Rm 3, la più grande per estensione territoriale e abitanti, nel 2016 il 42% di tutto il personale (medico, dirigente e comparto) aveva tra 55 e 67 anni. In quell’anno sono usciti 83 lavoratori e ne sono entrati 33. Dal 2018, per il solo personale del comparto (infermieri, tecnici, ausiliari, amministrativi, etc), dei 1537 in organico (di cui 870 infermieri), circa 645 sono “pensionabili”: se le uscite nel triennio 2018-2020 (per età, anni di contributi e quota 100) hanno riguardato e riguarderanno circa il 40% del personale, le assunzioni previste (286) saranno meno della metà (il 18,6%). Al San Camillo in totale sono state perse, dal 2016, 260 unità (di cui 183 nel comparto): le assunzioni previste sono 551, poco più della metà delle uscite previste da qui al 2020. Al San Giovanni Addolorata, l’altro grande plesso ospedaliero di Roma, per quanto la quota di over 55 nel personale del comparto sia più bassa (circa 1/3 del totale), delle 40 unità perse dal 2016 ne sono entrati al momento solo 8, da concorsi già espletati. Sempre per il triennio 2018-2020, mentre 400 entreranno, ne potrebbero uscire 700. Alla Asl Roma 1, sono previste 1164 assunzioni su un totale di 5120 in organico. Anche qui è facile immaginare che il potenziamento netto sarà dimezzato, per effetto delle uscite nello stesso periodo: nel 2016 gli over 55 erano il 50% nel comparto e il 70% del personale medico.
“I conti sono presto fatti – prosegue Di Cola – su una platea già ridotta all’osso e con un’età elevatissima, usciranno più di quanti entrano. Le proporzioni tra giovani e meno giovani devono essere ribaltate: solo con un’occupazione numericamente adeguata, giovane e qualificata sarà possibile rilanciare il sistema sanitario laziale e offrire servizi efficienti a tutti i cittadini. Non scordiamo che le grandi realtà pubbliche del Lazio assistono pazienti da tutta Italia. È fondamentale uno sforzo straordinario per sbloccare concorsi, procedere alle stabilizzazioni, investire maggiori risorse e accelerare i processi. A partire dal potenziamento degli uffici dedicati ai concorsi. Troppo pochi quelli banditi: le aziende non riescono a spendere le risorse già stanziate per assumere, perché mancano le graduatorie disponibili, col serio e paradossale rischio di trovarsi costrette, per implementare il personale, a generare nuovo precariato o esternalizzare servizi. Se non si interviene subito, il primo paziente da curare sarà lo stesso sistema sanitario regionale, e il rischio che i servizi implodano sarà sempre più vicino”.