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Politiche di genere, l’intervento del coordinamento donne FP all’assemblea delegate Cgil Roma e Lazio

Ieri, 30 settembre 2019, si è tenuta l’assemblea delle delegate Cgil di Roma e Lazio, verso l’assemblea nazionale che si terrà a Roma il 5 ottobre prossimo. 

Questo l’intervento della Fp Cgil di Roma e Lazio, tenuto da Daniela Bonvetti, del coordinamento politiche di genere del territorio Roma Sud -Castelli. 

Care compagne e cari compagni,Care compagne e cari compagni,il susseguirsi di eventi preoccupanti che mettono in discussione i diritti delle donne, come la proposta di legge di Pillon sul diritto di famiglia o i tentativi di sgombero della Casa internazionale delle donne o del Lucha y Siesta, ci spingono a fermarci un attimo per capire che è il momento di reagire e agire. Senz’altro le questioni di genere non riguardano solo le donne ma devono riguardare soprattutto coloro che attuano comportamenti violenti e/o aggressivi. Ma devono essere le donne a prendere consapevolezza di quando sono vittime di discriminazioni e aver coraggio di denunciare tutte quelle situazioni che le mettono a rischio o ledono alla loro dignità.Nonostante ogni giorno ci sia l’annuncio dell’ennesima donna vittima i femminicidi, qualcosa si sta muovendo. Sabato 21 settembre i magistrati di Tivoli hanno presentato dei timidi ma positivi segnali di un cambiamento culturale: 300 donne in due anni hanno trovato il coraggio di denunciare violenze e maltrattamenti. Nella Procura di Tivoli infatti ha trovato terreno fertile l’applicazione della legge 169/2019, entrata in vigore lo scorso 9 agosto, ai cui sensi gli inquirenti sono obbligati ad ascoltare la persona offesa entro tre giorni dalla denuncia. Ma sappiamo che purtroppo la denuncia non basta, anzi, a volte non fa che incattivire l’accusato.Il fenomeno della violenza di genere (violenza fisica, sessuale, verbale, psicologica, economica e morale) è in Italia di dimensioni allarmanti, sia per il numero delle vittime sia per l’elevatissima percentuale dei casi non denunciati. La percentuale infatti di donne che denuncia questi reati è stimata in meno del 10%.

È necessario quindi istituire dei presidi antiviolenza in cui psicologhe, avvocate, servizi sociali e polizia giudiziaria possano assistere quotidianamente le donne vittime di violenze nel lungo percorso post-denuncia. È indispensabile l’esistenza di una rete che sia in grado di percepire questi reati e di non essere indifferente alla violenza, una rete che abbia come nodi le denunce dei vicini e i comportamenti di familiari che non coprono atteggiamenti violenti, fino ad un uso adeguato delle parole, soprattutto da parte dei mezzi di informazione.

Proprio perché sono assolutamente insufficienti i centri di antiviolenza e i servizi pubblici imputati ad accogliere le donne vittime di reato, né idonei a tutelarle e accompagnarle, anche economicamente, nel lungo cammino che le aspetta – è assurdo tentare di interrompere una esperienza come quella del Lucha y Siesta.Il luogo di lavoro è da sempre per la donna lo scenario di relazioni e gerarchie aggressive, il luogo in cui si esercita maggiormente, forse, la discriminazione, e non soltanto per la differenza salariale.Le donne da decenni contestano il dominio maschile e rivendicano la parità nei diritti e nelle opportunità maschili. Una donna in cerca di occupazione o lavoratrice deve affrontare la discriminazione forse più grande, insita proprio nel suo essere donna, quella concernente una sua possibile gravidanza. Il “muro” con cui si scontrano le donne si materializza quando chiedono uno o più congedi di maternità o quando optano per orari di lavoro part-time o flessibili.

Perciò questo fenomeno è chiamato “maternal wall”,“muro materno”. Ma le donne non subiscono discriminazioni solo quando hanno responsabilità genitoriali, ma anche di cura, quando si trovano ad assistere genitori o partner malati.Un’altra situazione ricorrente nel mondo del lavoro femminile, oltre alla totale mancanza di politiche a sostegno della famiglia, è quella che viene definita “soffitto di cristallo”, metafora per indicare quelle barriere invisibili che non permettono di avanzare, come ad esempio può essere una donna a cui si impedisce di far carriera solo per il suo genere di appartenenza.Nella nostra società si fatica a sfatare gli stereotipi di genere nei luoghi di lavoro. Così come ribadito dal “Paradigma di Goldenberg”, è saldamente ancorato il pregiudizio secondo il quale esistano ancora lavori femminili e lavori maschili. In qualsiasi ruolo la donna si trovi a lavorare, deve sempre faticare maggiormente per ottenere la stima dei colleghi uomini.

Inoltre sui luoghi di lavoro le lavoratrici sono spesso vittime di quello che si definisce “sessismo benevolo”, ovvero un atteggiamento di fondamentale pregiudizio maschile in cui è latente la convinzione che la donna debba essere in una condizione subalterna rispetto all’uomo (se non relegata alle mansioni domestiche a casa!).Le donne potrebbero, sulla carta, fare qualunque lavoro, ma nella realtà quotidiana non si distribuiscono in modo uniforme nei settori di attività, nelle professioni e nei mestieri, ma si concentrano prevalentemente in poche occupazioni, spesso legate a stereotipi sociali e ricalcate sui ruoli tradizionali del lavoro domestico e di cura (insegnanti, segretarie, impiegate, parrucchiere, infermiere, commesse, assistenti sociali, cassiere…).

Questi lavori sono caratterizzati da retribuzioni poco elevate, bassa qualificazione e scarse prospettive di carriera, ma sono più compatibili di altri con la gestione delle responsabilità familiari perché sono vicini al domicilio, hanno orari flessibili e incarichi di routine che non richiedono trasferimenti e straordinari. La segregazione professionale però non termina con il turno di lavoro, ma prosegue poi tra le mura domestiche, dove non sussiste quasi mai la suddivisione delle mansioni e spetta alla donna il mantenimento della casa e la cura dei figli.Per non citare quei terribili casi eccezionali in cui la donna è anche vittima di molestie. Tutto questo favorisce la dispersione del lavoro femminile, che è quasi sempre quello più qualificato.

È importante padroneggiare e condividere un vocabolario specialistico dei termini utilizzati a volta senza un vero discernimento, quali: sesso, genere, differenze sessuali, differenze di genere, mascolinità, femminilità, stereotipo e sessismo.Alta è l’attenzione nei confronti del linguaggio, specchio della società che lo utilizza. Il linguaggio non è un elemento neutrale ma riflette le categorie culturali della lingua cui appartiene. Attraverso la lingua non ci si scambiano esclusivamente informazioni, ma è anche un mezzo per affermare il proprio sé, nominare e denominare le cose. Un nome carica di significato ciò che chiamiamo. Se fin dall’infanzia il linguaggio viene concepito come un fattore naturale piuttosto che determinato storicamente, diventerà automatico e consequenziale anche il modo di pensare che il linguaggio stesso veicola.Fino al secolo scorso molte professioni erano precluse alle donne, e perciò non esiste la versione femminile di termini come “medico” o “assessore”. Forse “sindaca” o “ingegnera” suonano male, probabilmente perché non utilizzati dai media, ma resta comunque l’asimmetria semantica: alcunimestieri declinati al femminile perdono autorevolezza: “maestro” indica un’autorità in un campo o una guida spirituale, “maestra” definisce invece l’insegnante di scuola elementare; “segretario” si riferisce a chi ricopre un ruolo di potere, come segretario di partito o di un’associazione, mentre “segretaria” descrive un ruolo amministrativo subordinato e non dirigenziale, e si potrebbe continuare con gli esempi…. Anche nei libri di scuola le donne sono relegate nelle posizioni tradizionali secondo vecchi stereotipi, per cui è sempre la mamma a cucinare e il papà a lavorare. La scuola in Italia continua così a tramandare modelli rigidi e fuori dal tempo, sui quali le bambine ed i bambini formano le loro identità di genere e le loro relazioni.Le donne devono quindi iniziare a riconoscere una propria identità femminile nel mondo del lavoro per iniziare a scardinare, anche il linguaggio che la tramanda, la subalternità dei ruoli, perché la scelta dei termini non è mai neutrale o causale.È importante iniziare a acquisire le giuste categorie interpretative e portarle dentro le riflessioni e le azioni del sindacato: l’attivista e giurista Kimberle Crenshaw propose nel 1989 il concetto di “intersezionalità” per descrivere le sovrapposizioni, intersezioni appunto, tra le diverse identità sociali e le relative possibili discriminazioni, oppressioni o dominazioni. Questa parola è entrata poi nei vocabolari di sociologia e giurisprudenza. Questo paradigma afferma che i classici concetti oppressivi, come il razzismo, il sessismo, l’abilismo, l’omofobia, la transfobia, la xenofobia e tutti i pregiudizi basati sull’intolleranza si modellano in base ad altri preconcetti come la contrapposizione uomo/donna o bianco/nero.È indispensabile adottare quindi tutti quanti un approccio intersezionale ed essere in grado di interpretare la realtà analizzando i diversi assi legati alle diverse categorie biologiche, sociali e culturali, come il genere, la razza, la classe sociale o l’orientamento sessuale.I meccanismi di oppressione nella società non agiscono in modo indipendente, ma sono interconnessi e creano un sistema di oppressione che rispecchia l’intersezione, di molteplici forme di discriminazione.Il nostro sindacato deve essere da ora in poi, nello stesso tempo, nuovo ma radicato ai valori originari e alla sua grande storia, che ha portato alle forme organizzative e di tutela delle lavoratrici e dei lavoratori che oggi conosciamo. Dobbiamo recuperare il senso e la forza del nostro stare insieme, superare i dualismi, ma soprattutto conquistare la libertà e la dignità di tutte le lavoratrici. Un nuovo rapporto con i movimenti e le realtà associative, le reti nazionali, locali e internazionali, e una nuova serie di strumenti che possano – dalla contrattazione all’iniziativa politica – rendere concreto il cambiamento verso un riequilibrio di genere e di diritti.Il nostro sindacato non ha paura delle critiche o della disapprovazione, perché ne sa far tesoro e riconosce la necessità di rinnovarsi per risanare il rapporto con tutte le compagne e i compagni che da anni, quotidianamente e silenziosamente, lottano per i diritti fondamentali di tutte le donne, e quindi dell’intera società, perché il sindacato è giustizia, democrazia e libertà!!!

 

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